Non giorni

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La schiena fa male da non stare seduto in macchina ne da star meglio in piedi, male da cenare scomodo come se avessi la sedia arroventata, da stringere i denti, tagliando il pane per la cena.

Ho discusso con mia madre per niente ed ha pianto, riscaldando la cena, dopo l’estremo tentativo di fare qualcosa che potesse coinvolgermi un po e farmi uscire dal bozzolo delle coperte della mia camera: la sera della domenica è lettura disperata, scrittura vertiginosa e confusa, pezzi da scrivere e cancellare, poi freddo e sonno prima di un pasto che non ricordo quasi mai.
Ho riso, soffiando dal naso, non per soddisfazione, ma per rabbia mascherata che ha finito per confonderla e preoccuparla ancora di più.

Sono stato in un non posto oggi, al centro commerciale, dove la gente spende pomeriggi catatonici, camminando senza una meta, schivando i promoter dagli approcci impacciati, assetati di percentuali utili a proseguire un lavoro alienante al quale sono ancorati ancora per poco. Propongono contratti internet, luce, gas, telefono: tutto con sorrisi forzati, vestendo abiti male indossati, cravatte male annodate. E non riesco ad odiarli perché li so sperare, combattere, lanciarsi. Li immagino nelle loro delusioni, nelle loro pause sigaretta, oppure al mattino davanti all’armadio, scegliendo l’abito per fare il monaco, pur convinti che non dovrebbe servire.

Ho ammirato le mani affusolate delle commesse che riordinavano attente, ho risposto con un sorriso al loro invito a chiedere aiuto. Ho sorriso senza un vero motivo, come per un’urgenza di condividere qualcosa che però non era per loro. Io mi appassiono immaginando le loro vite scandite a frazioni di mezze giornate, scolorite nel mare di quella folla annoiata, incapace di stare sul divano di casa, finendo per preferire quelli in esposizione, dove sedersi ad aspettare, giocare con il cellulare: ho capito che voglio bene a tutte le commesse che ho incontrato in vita mia. Ecco perché ripiego alla meglio, sempre, tutto quello che ho provato e non comprerò.

Stanotte ho bevuto troppo e le orecchie ronzano di contraddizioni e canzoni che l’autoradio ha urlato fin qui sotto al cancello di casa. Come al solito è l’ultima ad essersi cementata e già so che ripeterò le sue ultime frasi fino a sfinirmi di rabbia. Ho evitato la manovra di ingresso, il cancello di ferro. Oh si, si che sono saggio io.
La lingua secca mi ricorda che oggi ho bevuto pochissima acqua e fumato troppe sigarette, che la mia t-shirt deve fare un bel bagno purificante per eliminare l’odore di fumo. Penso solo all’impresa di domattina, dover reggere, guidare la moto, andare al lavoro e prima ancora a dovermi sistemare la barba nella quale anche ora passo le mani. Penso che mi raderò mentre mio padre comparirà come al solito lì all’angolo dello specchio, senza dirmi niente, lasciandomi così, anche lui, alle incertezze ed alle odiose supposizioni.
Certe sere fa male il petto e G. dice siano le sigarette. Io sono in disordine e la mia barba non è più rifilata come volevo, non lo è da qualche giorno e credo d’avere un aspetto peggiore del solito. Domattina lo capirò dall’impaccio delle colleghe di stanza.

Non c’era un film decente in decine di sale laggiù, ecco perché c’ ero andato.

G. prende il sole con gli amici, V. non ha risposto ai miei messaggi e mi sono sentito più solo; ho lavato la macchina e controllato il motore. Il pistacchio del gelato ha stimolato qualche endorfina prima della solita terapia alla libreria. Ho quasi finito il libro appena comprato e mi sembra perfino di ricordarlo. Faccio passi avanti, almeno fino a domani.

Prendere sonno è un’impresa, una lotta che non credevo e sulla panchina qui sotto fumerò ancora, un sigaro saporito e denso, fatto a mano, come il sesso vero, come il male, quello forte.
E lotto scontento nel letto, cercando la posizione meno dolorosa per la schiena da distendere nel piccolo letto. Ed avrò sonno tutto il giorno, come oggi, seduto, guidando, camminando, pensando di dover dormire nel fresco di un parcheggio coperto.

“Dove sei?”, il messaggio più dolce da non so più quanto tempo: credo che D. si preoccupi sul serio per me. Ma non ho risposto davvero, perché avrei voluto parlare un bel po senza dover mentire per rassicurare.

Mi sento svanito e confuso, ripasso la canzone che finirò per odiare e cerco di scacciarla con la radio che rimarrà accesa almeno fino alle 3. Campari e Gin non hanno funzionato e la schiena sta peggiorando: cerco di addormentarmi sperando siano i dolori per le ali che stanno per spuntare.

Se rileggessi cancellerei, lo so da me. Pigio “pubblica” perché io so arrossire per altri motivi.

“…gli resta solo una cosa, chiamare il suo mondo lontano. Lo fa con tutto il suo fiato, ma sempre più piano…”

 

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