Tempus fugit, amor manet

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Noi 3

Stamattina facevo il fumo dal naso respirando.

Lungo la piccola strada troviamo gli alberi umidi, con la corteggia inverdita dal muschio sul lato della strada dalla quale evidentemente prendono poco sole; c’è un albero cavo, ha un buco perfetto e tondo dove crediamo davvero sia nascosto ora un cane, ora un gatto ma mai un picchio come invece la mia mente di vecchio bambino, scontata, arrugginita si aspetterebbe.

Il gatto intanto, incontrato davvero, lo abbiamo visto scappare poco prima sull’erba imbiancata da rugiada e gelo.

Beatrice  si è fatta togliere la giacca appena fuori dalla porta del corridoio delle classi, poi mi ha baciato sulla guancia e mi ha abbracciato stretto sorridendo sorniona. Matilde allora è tornata indietro pochi passi per far finta di rubarmi il naso così che poi, le ho ricordato, me lo avrebbe dovuto restituire oggi pomeriggio, tornando. Continua a leggere….

Pork pie hat – Lester Young

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Sassofonista, o meglio tenorsassofonista, il migliore secondo Billie Holiday che lo chiamava prez, presidente per riconoscergli appunto una levatura, uno status di maggiore rispetto al resto del mondo.
Un jazz sereno e pacifico, dall’inizio degli anni 30 fino alla morte, prematura, “in stile jazz” come molti altri geniali musicisti del genere.

Con l’andare del tempo, con la fama crescente, qualche contratto accettato e qualche altro rifiutato per orgoglio, come nel 1934 quando Fletcher Henderson cercò di assumerlo contro il parere della propria orchestra, Young si autodeterminò come originale e forse inarrivabile.

Vestiva in modo stravagante, con un cappello particolare ed un lunghissimo cappotto, si dice andasse in giro raccontando di avere poteri sovrannaturali, usava spesso una posa particolare suonando, tenendo il sax in diagonale, quasi orizzontale.
Proprio quel cappello diede il via all’utilizzo di un ulteriore soprannome, porkpie hat appunto per via del modello del cappello che ricorda la forma di una torta di salata, tipica del mondo anglosassone.

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Ritratti in Jazz: Bill Evans trio, Scott Lafaro e la rivoluzione del contrabbasso

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portrait in jazz

Dopo l’estremo ed eterno successo dell’incisione di Kind Of blue (1959), Bill Evans costituisce uno di quelli che diverrà fra i trio maggiormente noti in ambito Jazz, il Bill Evans Trio, appunto.

Lui al piano, Paul Motion alla batteria, Scott Lafaro al contrabbasso, il resto, semplicemente è davvero storia che andrebbe studiata a scuola. Non si potrebbe davvero ascoltare musica, inquadrarla in un contesto, in una nazione e quindi studiarne la storia, la geografia? No, invece rimaniamo ancorati a programmi e metodi che non sono tradizionali, sono superati.

Così la macchina del tempo corre al 1961, al 25 Giugno per la precisione, al pomeriggio di quel giorno, alla serata che incombe subito dopo. I fortunati avventori del Village Vanguard di New York gustarono uno storico concerto, una delle più grandi dimostrazioni di bravura di Scott Lafaro, bassista riuscito a portare lo strumento del “basso” ed il suo suono, fuori dal concetto di “mantenere il tempo”, fuori dagli schemi più classici. Da quella serata del 25 giugno, senza nemmeno troppi take, furono registrati ben due album: Waltz for Debby e, appunto,  Sunday at the Village Vanguard.

Almeno 10 anni prima del talentuoso e forse, non capiremo mai perché, più famoso Jaco Pastorius (più vicino ai giorni nostri col suo basso elettrico, appartenente ad altro stile di Jazz), il contrabbasso aveva un viso, quello di Scott Lafaro.
Quello del 1961  per Lafaro fu un anno magnifico e denso di concerti: ad appena 25 anni calcava palchi importanti e non solo accompagnava mostri sacri come Bill Evans: sapeva condividerci la scena, guadagnarsi minuti in assoli prima poco sentiti per quello strumento. Continua a leggere….

Michel Petrucciani

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Michel Petrucciani

E’ notte anche se  in realtà questo non sarebbe dovuto essere un pezzo qui ma un discorso in una serata, qualcosa da integrare con pause per fumo, pezzi da ascoltare e video significativi.

Il jazz è come la birra. La prima volta che la assaggi ti chiedi come faccia la gente a berne. Più avanti non riuscirai a farne a meno. Qualcuno invece in maniera molto più colorita, forse troppo, anni fa, aveva detto che il jazz è come un peto, un rutto: piace, fa sorridere, solo chi lo fa.

Il jazz è come un colore e non è possibile scriverne tanto più che spesso ci si rifugia dietro ad una canzone che possa identificarlo seppure espressione di una sola delle correnti di questa musica.
Michel Petrucciani è jazz però, questo posso dirlo con certezza: jazz, come parola viene da jam session la cui contrazione pronunciata dai neri americani dava luogo ad un suono simile all’odierna parola, e lui dell’improvvisazione ha fatto il suo marchio di fabbrica.

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Dei calmanti effetti di Autumn leaves

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something else, autumn leaves

Cannonball Adderley con l’album Something else e lidea di acquistare vinili e giradischi, un’idea in una mattina come questa nella quale mi si lucidano gli occhi senza motivo e senza tragedie, in un giorno in cui le lacrime sono come la nebbia di stamattina: c’è ma è diradata come i ricordi, come la fantasia dei bambini.

Nella confusione dei sogni sballottati dal treno ho ripensato quindi ad una delle mie idee più assurde, ad uno dei progetti non ancora realizzati. Da ragazzino sognavo l’est Europa ed i suoi disordini politici, la polizia con gli impermeabili di pelle nera, un quadro apocalittico studiato sui libri di scuola, fatto di bombardamenti e poca democrazia, di posti di confine freddi e nebbiosi, di documenti scambiati di notte, tirati fuori dalla giacca di pelle: “buona fortuna“, prima di partire.
Così, ecco, volevo farmi arrestare dalla Stasi e nei giorni che precedono il prossimo viaggio, a Berlino, questo torna prepotentemente a galla nella marea delle cose sospese, dei progetti di viaggio, racconto.
Non c’è un reale nesso fra il jazz e l’est Europa post bellico-fine anni 80 se non gli effetti calmanti di quegli assoli così estemporanei e pure così perfettamente miscelati: ecco, il jazz mi ricorda la mia fantasia, il disordine dei miei ricordi e dei miei progetti.

E’ tanto tempo che manco dal blog ma prima di ricominciare con regolarità voglio concludere il resoconto del viaggio in Borneo, farne un piccolo libretto completo di foto, pubblicarlo a casa mia e sugli scaffali di casa di mia madre.
Nel frattempo in questi mesi ho lavorato molto, bestemmiato un po’, sono finito in ospedale senza che i medici capissero perché, allenato, vinto, perso.
Ho scritto a Willie, come promesso, la guida della quale nei racconti di viaggio si trova ovviamente traccia e sto, lento come un pachiderma, lavorando ad un pagina che racconti la sorte degli indigeni che abitano attorno al Mulu Park.

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