Marari Beach

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Il vento non ha una esatta direzione ma soffia ora a raffiche, ora continuo.

Ad un ora di auto dal lago delle back-waters ci sono le immense spiagge della costa oceanica.
Mare e sabbia a perdita d’occhio: nessuno e nulla a parte quache corvo intento a piluccare le carcasse dei pesci.

Siamo a Mararikulam, quasi alla fine del tour qui nel sud.
Cominciamo qualche bilancio, qualche valutazione degli hotel e dei ristoranti, cominciamo a dare fondo alle riserve di biscotti e thè così da liberarci mani e bagaglio.
Il nostro programma prevede ancora prima una giornata a Cochin ed il successivo volo a Delhi dove rimanere 3 giorni.

Dopo un giorno di tregua il Monsone è tornato a farsi vedere e così la giornata di oggi ( ieri, se domani avrò trovato internet, per chi legge) è stata spesa nel grandissimo resort fra coltivazioni di spezie e di ortaggi biologici, nel giardino delle farfalle o sotto il portico del piccolo cottage dove, dall’amaca, la pioggia ha un suono diverso.
Fra le ninfee dalle foglie impermeabili ai goccioloni d’acqua volano libellule che fotografate da viciono paiono indossare un casco colorato.

La pioggia anche durante il Monsone (va scritto sempre maiuscolo, per rispetto) si prende qualche pausa.
Il mare ha un odore aggressivo e violento che ci sorprende già uscendo dalla stanza, sbucando fra le palme da cocco che separano spiaggia e giardini.

Qui l’oceano crea una sensazione di smarrimento e non riuscire a fissare figure se non alle nostre spalle monta una specie di vuoto, dentro.
Chilometri in ogni direzione, fra il blu, davanti, ed il giallastro della sabbia sbiadito dai nuvoloni a sinistra e destra: nulla, nessuno, non una struttura balneare, non un ombrellone, niente di quello che la parola mare possa suggerire alla maggior parte di noi.

Così camminare sulla battigia ha un gusto diverso e guardando lontano si vede la foschia di salsedine mista alla sabbia scossa dal vento.

Da una folata compaiono come fossero una fata morgana due nerissimi e piccoli pescatori.
Una lenza e 4 ami alla fine della quale sono legate una vecchia maniglia di porta ed una sorta di connettore metallico uscito da un pc di vecchia generazione, a fare da peso.
Questo è il loro modo aggredire questo mare scosso e pescoso. Il metodo funziona ed al primo lancio ecco degli orribili pesci baffuti che ci dicono essere locali e buoni.
Il mare è ricco e con una manciata di sabbia lasciata scoperta dalle onde che si fanno indietro uno di loro scova una decina di piccoli granchi da usare come esca.

Un paio di km più su un pescatore, seduto, vigila i suoi piccoli pesci lasciati a seccare: una povera distesa di teste mozzate e pesci piuttosto magri delimitata da 4 paletti ai quali è intrecciato il nastro di una vecchia musicassetta e qualche cd che muovendosi e riflettendo la luce tiene lontani i corvi.

Qui, a parte che in hotel, le persone non parlano inglese e ci si sorride aggiungendo un gesto di intesa, a mano aperta, tenendo il palmo verso l’altra persona: anche le statue nei templi hindu, per benedire, assumo questa posizione ed ho capito, intuendolo, che questo gesto è riconosciuto pacifico come fosse una stratta di mano.

Onde piuttosto alte lisciano la spiaggia fin su, a pochi metri dal giardino del resort ed in acqua non c’è nessuno: qualche raggio di sole ci ha illuminato il pomeriggio e finchè il monsone non tornerà manteremo viva la speranza che il nostro bucato possa perfino asciugarsi.

L’agitazione del panorama così vuoto eppure attraente, il rumore delle onde che da sotto il portico ci tengono attenti fumando sigarette mentre due grossi pipistrelli ci osservano appesi alla palma difronte: nei giorni più vuoti spesi a riordinare, nelle ore a tratti noiose, in quei minuti spesi in camera a progettare altre tappe ho riconosciuto un succo di sensazioni salvifiche e genuine, una felicità così sciocca e vuota per molti da non poter entrare in queste pagine: almeno io, no, non so scriverla ne spiegarla.

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