Ascoltarvi

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Forse ho la capacità di ascoltare le persone senza nemmeno rendermene conto.

Il fatto è che ogni giorno, praticamente ogni giorno, mi ritrovo a guardarle davvero da vicino, così vicino come nessuno le osserva davvero.
Mugugni, facce  senza filtro, sbadigli, storie appena accennate eppure così dense, concentrate nei pochi istanti di un colloquio più che altro fatto di sguardi.

Mi piacerebbe parlare, ma ascoltare la gente, il più delle volte sconosciuta, è una miniera di informazioni e storie, a volte piccanti, a volte amare da lasciare a bocca aperta per fuggirne il sapore.
Li vedo piangere, ridere, sbuffare, li ascolto gridare, li vedo impacciati, se non soli.
A volte ci mettono un po’ a tirare fuori la loro realtà interiore, a confessarsi e mostrarsi senza la maschera, il cerone da clown che ogni giorno rende tutto digeribile e gradevole agli occhi di colleghi, parenti ed amici.

Ed è come se fossi il loro confessore: diretti da parenti noiosi, al seguito di bellissime donne o con sgradevoli compagnie: io ascolto e mi specchio nella loro anima, nel fondo di quegli occhi così aperti  e sinceri perché sereni, convinti di essere ascoltati; occhi spalancati sulla realtà, la loro stessa.
Certe volte mi sono sentito di dire basta, di ridere o cedere ad un attacco di rabbia, altre volte, soprattutto la notte, di lasciarmi cadere in un letto d’ansia che m’avrebbe cullato, ormai solo, per le ore a venire.

Tutto sommato nessuno ascolta me e sebbene  io sia sempre oltre che ben disposto: ricevo, archivio, appunto storie  sotto forma di sguardi  e solo con quelli consiglio: ma va bene così, non riuscirei a dire nulla dei loro difetti di cui vengono a confessarsi, dei loro dubbi estetici, delle loro debolezze e di quelle espressioni con me incredibilmente vere, agli occhi degli altri, modificate appunto per fingersi, nascondersi.

Ci sono giorni in cui sto lì in silenzio, accenno appena un sorriso, ascolto e li lascio andare: in quei pochi minuti, che siano mentre sono diretti in ufficio, a casa dalla moglie, dalla ragazza appena conosciuta, raccolgo lo sfogo, l’esame richiesto.

Fa strano la statistica tutta personale che mi vede attento orecchio più per problemi estetici ed insicurezze personali piuttosto che per problemi reali, di vita vera, diciamo i più seri.

I più divertenti fra gli incontri sono quelli in cui il mio interlocutore prova discorsi, accentua la voce, abbassa il ton ed urla “in silenzio” per provare la scena che fra qualche minuto andrà in onda chissà dove, chissà con chi.

Ognuno di noi è un attore, il mio problema divertente è che assisto agli sfoghi ed alle prove degli attori, bravi, belli o brutti che possano essere.

Confesso che a volte il lavoro è stupendo, come quando entra una lei e si sente così a suo agio da potersi sistemare il seno, una calza.
A volte succede anche in silenzio . Certo, in silenzio se ci si conosce già da un po’, oppure se non ci conosce affatto: è difficile aprirsi, calcolare i tempi per poter parlare da soli, ecco. Credo dipenda da questo.

A volte invece è un lavoro devastante, un su e giù continuo, senza orari. Ricevo chiamate praticamente sempre, notte compresa.
Anche se poi, la notte, dopo la mattinata, è senza dubbio il momento migliore.
Un lavoro difficile, anche igienicamente: certe volte si tratta di brufoli, peli, imperfezioni che sono chiamato a valutare da vicino, sporcandomi “le mani”, in qualche caso.
Ma è lavoro, devo farlo, tutto sommato voglio farlo.

Guardo ogni giorno nel profondo della gente, dalla bocca della gente, mentre parla o mentre mi mostra qualcosa che non va; guardo i loro occhi, li osservo sistemarsi la cravatta, chiudersi la zip o frugare in tasca mentre borbottano qualcosa, un po’ per sfogo, un po per insicurezza.

Certe volte faccio “terapia” di gruppo, di coppia. Ma allora non è che i discorsi siano poi così sinceri: abbastanza deludenti direi ma infinitamente utili se raffrontati a cosa esprimono gli stessi soggetti, esaminati da soli.

Un lavoro a metà fra psicologo, terapeuta in senso lato e  confessore.

Gli ultimi due che ho visto mi hanno spinto a scrivere un po’ per sfogo un po’ per raccontare una professione di certo dimenticata, trascurata e sottovalutata.

Quel bacio lento, la sua selvaggia semplicità, quella fame espressa sotto forma di condivisione fisica, sotto la luce del mio studio, sotto i miei occhi così aperti, nel silenzio generale del momento, mi hanno fatto capire quanto sia bello questo mestiere.

Anche se poi, nei momenti di solitudine, quando girate le spalle al mio tentativo di parlare e raccontarvi di me, mentre  le porte si chiudono, rimango solo.
Solo a rimuginare, solo e muto: aspetto che torniate per provare a lanciarmi e finalmente dirvi di me.

Sono orgoglioso comunque di me, orgoglioso d’essere lo specchio di un ascensore.

 

Massimo

 

 

 

 

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