I conti con il tempo

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campo lungo

 

Nelle mie lettere a sorpresa hai perso tante volte i minuti rubati al lavoro o quei minuti prima del sonno, sforzandoti di seguire il filo di quel discorso che pareva complicato.

Adesso abbiamo giorni veloci e confusi da digerire.

Abbiamo da fare i conti con il tempo mentre Roma pare annebbiata, forse per colpa dello smog del traffico oppure di una specie di umidità, indizio  di un inverno aspettato che non arriva mai davvero . Tutto questo mi fa pensare ad una canzone interrotta da un’orribile e stonata pubblicità trasmessa alla radio.

Adesso però abbiamo tempo per rimandare conversazioni e le telefonate serie: adesso possiamo vederci.

Adesso si, anche se sembriamo più estranei e se perfino un abbraccio potrebbe avere una meccanica complicata ed arrugginita. Non riusciamo ad entrare,insieme, nell’obbiettivo immaginario che ci inquadra, come fossimo, appunto, soggetti distanti: un campo lungo in cui, e la nebbia non c’entra niente, siamo indistinguibili pure se vicini.

Adesso che al lavoro ci sentiamo realizzati ma meno tranquilli non sappiamo riconoscere l’odore che prima significava casa, adesso, quella fame che s’accendeva con un bacio sfiorato e che sapeva di bocche mescolate, del sesso animale, non ci appartiene ne frastorna. Almeno finché non ci assaggeremo ancora, in silenzio.

Odierò quell’impaccio, incontrandoti, quel non sapere se perdere o meno l’equilibrio e sbilanciarmi a stringerti. Mi farà instabile quel dover rimisurare le azioni, ricominciare a provare, quelle orrende domande da fare a se stessi, tornando a casa

Droga, maledetta. M’avveleni il sangue e mi lasci all’ossessione di inseguire una quotidianità.

Tornando a casa, stanotte, mescolato agli altri senza volto, assonnati, nell’autobus, ballando la danza delle buche imposta dal pachiderma mezzo vuoto, targato Atac, mi sentirò meglio e migliore. Sbaglierò ancora.

Mi perderò ascoltando discorsi di adolescenti filippine e perderò parole fra il loro dialetto romanesco mescolato alla lingua dei genitori. Guarderò i loro zaini sdruciti accarezzando la mia barba più lunga e più bianca. Aprirò ancora il libro che ho in tasca, progettando un viaggio oppure  memorabili frasi che mai scriverò.

In qualche modo saremo insieme e l’impaccio come la familiarità persa saranno lontani o forse saranno stati solo immaginati in partenza, perché in fondo niente cambia, e pure questo sa farci male.
Nella notte più lunga sarò felice e svanito come il peggiore dei drogati, saprò sentirmi pieno, denso di ragioni ed aspettative. Avrò chiarissimo in testa la differenza fra aspettativa e speranza.

Non saprò immaginare che riuscirai a tradirle entrambe come solo io credevo di saper fare.

Struggersi e farsi stringere lo stomaco dal bene, a distanza, ci riuscirà come non mai, imprigionati ancora in un’ inquadratura in bianco e nero che sapremo occupare di sbieco: fotografati in un campo lungo imperfetto.

 

 

Massimo

 

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