Sullo sfondo

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notte al chiosco di ponte milvio

Sullo sfondo un fiume di automobili scorreva accanto al fiume vero, il Tevere, oleoso e  silenzioso, dimagrito per la prima estate.

Quella notte del fiume in piena, a Ponte Milvio, del rumore d’acqua un po’ arrabbiata che sbatte sui piloni, era lontana.
La pioggia del pomeriggio di ieri ha rinfrescato l’aria e così nel traffico ho guidato senza accaldarmi, anche se lo slalom fra le auto è stato più faticoso del solito. Sono arrivato riscaldato dal tepore del Campari bitter e dal profumo secco del Gin.

Concerto di Vasco Rossi allo Stadio Olimpico, altro fiume, stavolta di gente che cammina lungo la strada: centinaia di dialetti, giovani e più anziani, qualche coro, canzoni gridate ed occhi felici. Ho guidato pensando ad ogni loro storia, col desiderio irrefrenabile di sapere, capire , indagarle e goderne per riempirmi, come se per ognuna fosse stato girato un film, una biografia.
Ho ripensato ai “miei” concerti”, ai prossimi dove andrò, a quella sensazione di trasporto che ti da la musica più bella, al filone dei pensieri che le si accompagnano. Oh beh certo, non è Vasco per me, ma per loro si, e li guardavo come potessero insegnarmi qualcosa, o almeno risveglialo.

Gianvincenzo mi ha accolto lì al solito nostro bar, sui piccoli sgabelli, con una spada di gomma piuma: stupore e confusione, fra la folla che s’affrettava ad andare. La spada era di uno dei bambini al tavolo con lui, uno dei figli di uno dei suoi amici. Era lì con i suoi compagni del liceo: mogli e mariti, bambini, giocattoli, pongo da modellare, Crystal Ball e ricordi anni 80, noi due che sniffando l’odore di quella plastica da gonfiare e di quella da modellare ricominciavamo un viaggio a ritroso, silenzioso, accompagnandoci con piccoli sguardi consapevoli.
Per un attimo ho rivisto la sua faccia e la mia : più rotonde e bambine. Ho rivisto i suoi ricci neri, la mia tuta sdrucita, risentito l’odore della scuola, della mattine a giocare, dei dispetti agli altri compagni, della voglia di andare alla Parigi Dakar, dei pranzi alla mensa, il sostegno, la complicità per sostenerci, nascondendo il cibo, togliendo l’altro dal disagio di una lite o di un rimprovero.

Adesso invece abbiamo le chiacchiere ed i nuovi nomi da ricordare, una bella serata, un sigaro e qualche birra, la fila al bagno, odiando chi oggi ha invaso quel nostro spazio: va bene tutto ma dove siete durante l’anno, col freddo e l’umido del Tevere? Noi siamo sempre qui, che diritto avete, ora, di ritardare le nostre routine?

Scherzare con i bambini c’è riuscito facile anche se poi in qualche modo ha continuato a ferirci, mentre gli altri, inconsapevoli del fiume che dentro ci scorreva, organizzavano la loro cena, la spesa da fare, mentre si parlava di ferie e di prossimi loro incontri. La nostra serata è proseguita alla piccola pizzeria mentre il piazzale si svuotava dei fan del concerto e si riempiva di moto e motorini che con la prima estate animano la notte del chiosco.
Noi apriamo e chiudiamo le operazioni: parcheggiamo quando è vuoto, ci abbracciamo forte, slegando moto e motorino, andando via, quando tutto si va spegnendo.

Le sigarette comprate al distributore accanto al bar Pallotta, dove da ragazzino compravo i biglietti per andare alle partite di calcio, con mio padre: adesso il bar è un posto per sedicenti vip e viveur, per giovani viziati ed incravattati personaggi che governano l’accesso: non è più come prima, pensavamo, ci siamo detti. Ed io mi impigliavo nella canzone di Gazzè che si intitola proprio così, “non è più come prima”.

Fumare veloci, perdendo il conto di quello che abbiamo bevuto, rincalzando con un’ordinazione dell’ultima ora, seduti sui barili di carburante tagliati, modificati con una tavola di legno, per diventare scomodi adorabili divani da confidenza.
Quello è il momento della foto sfocata qui sopra, scattata col piazzale ancora pieno di moto, con la notte che va, col fiume che scorre, col concerto già finito e la strada che si riempie veloce per svuotarsi di quell’andare di tutti gli estranei, per noi, rispetto a quel posto, all’odore delle nostre notti. Gian è lì, al piccolo bancone sulla destra, ordina per me ricambiando il mio favore del giro precedente.
E’ un immagine scura, molto chiara però, che mostra poco e contiene tanto

Ora ci stiamo vivendo anche se ci siamo rincontrati anni fa, dopo tanti anni di non voluta separazione, se nel frattempo ci è successo parecchio. Ma abbiamo recuperato ed è stato come non fossimo mai stati distanti. Adesso ci stiamo vivendo e confrontando, adesso che abbiamo un percorso inverso, ora che in qualche complicata maniera uno ripercorre le tappe dell’altro, ma con scarpe, gambe e sfumature d’intento differenti.
Una notte da parlare, anche se domattina saremo cadaveri avvelenati dal sonno: parlare perdendo il controllo del volume, succhiando fresca e potente benzina dai nostri bicchieri: una consapevolezza di comprensione piuttosto rara e saporita. Ora l’uno conosce meglio di prima il sapore delle giornate dell’altro, il significato di ogni sua mattina. Ora l’empatia riempie i silenzi e permette di non parlare, di cambiare discorso velocemente, mettendoci in mezzo invettive sui passanti, risate, ricordi fragorosi.

Ripensiamo ai suoi compagni di liceo, al loro aver costruito, distrutto, investito, ai loro figli, ed ai nostri.
Ci rimane una pipì infinita, prima di andare via, senza nessuna tristezza, ridendo forte, scendendo le scale del Tevere, colorite dalla sabbia fine del fiume dell’ultima piena di fine Gennaio, del ricordo di una mia notte che gli dipingo di fretta, con poche parole, perché lui già sa, perché mi comprende.
Si gira lento guardandomi scendere dietro di lui.

Un sorriso pieno gli riempie il viso e si riflette nel mio di risposta.Lungo l’argine svuotiamo il bagaglio del bere di ore ed ore.
Lo facciamo in silenzio, guardando, da sotto, il ponte illuminato, il tipo sdraiato, nel buio, da solo.

Nel lungo abbraccio silenzioso, tornati alla moto, non c’è stato spazio per nient’altro, per scelta. Niente se non riordinare le idee finendo di assaporare quella notte meravigliosa e felice, condita da ricordi ed intenti, progetti e confronti.

Forse andremo in Slovenia, in moto. Fa freddo, è piena notte e la giacca estiva non basta. Metto su l’impermeabile e guido piano, l’ho promesso, verso casa, cantando nel casco. Mi coccolo col calore del tunnel della tangenziale, rallento perché duri più  lungo.

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