05 luglio 1982

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05 Luglio 1982

“Ponto?!?. Oh, Chì, te ricordi? Te ricordi il 5 Luglio 1982?”
Millenovecentoottantadue, tutta una parola, d’un fiato: consapevole, asciutta.

Sotto il neon biancastro il pallore del cranio lucidato dagli anni.
Dietro la mano, passata sul viso, veloce, in una smorfia di scocciatura e d’abitudine, due occhi svegli ed ancora curiosi. Scontenti.

In una notte piuttosto lunga di una vita piuttosto rettilinea. In una notte spenta che avrebbe avuto molte più stelle delle stesse 5 da guardare dalla finestra del suo ambulatorio veterinario.
Aveva riposato le spalle con una strana posizione delle mani, giunte sopra la testa, mugugnando di stanchezza come poi avrebbe fatto un’ora dopo, tornato a casa, infilandosi nella metà calda del letto dopo aver mangiato metà cena fredda. Francesca era l’unica scelta di cui essere sicuro. E Luca non avrebbe preso sonno.

Trafelato e sfuggente, strangolato dal grosso nodo d’una cravatta rossa stagliata sul bianco di una camicia che lo faceva sentire in ordine già uscendo di casa.
Un ordine complicato che lo riparava da tutto il resto, un “resto” tenuto in qualche modo fuori, a distanza di sicurezza, imbrigliato nelle regole che per il suo rigido codice morale aveva deciso di studiare, scomporre, capire e rispettare come in un intento maggiore, come avesse in mente un disegno deontologico che già dai primi anni, sui libri, gli aveva permesso di vedere una soluzione.
Credo avrebbe potuto parlare di legge così come un esegeta si sarebbe speso in una discussione sulla Bibbia.
Il nodo, e la cravatta stavolta c’entrava poco, erano le sue unghie perfettamente divorate negli attimi da solo, nelle ore lì al suo studio o guidando le traffico.
Il nodo più stretto era quello che strozzava la valvola emozionale che aveva ridotto per scelta, per tenere a distanza chi non aderiva a quel codice morale che per lui erano semplice coerenza e correttezza.
Così aveva finito per essere selettivo ed inavvicinabile.
Lui dentro, gli altri fuori.
Ed era uno spreco. L’ho pensato ogni volta che l’ho visto, ogni volta, perfino, che lo vedevo forzarsi quel sorriso che invece a tutti pareva naturale, in foto, per mostrarsi più morbido alla cerchia di “umani” che lui e la sua valvola emozionale ridotta avevano lasciato passare.
Appeso al filo della conversazione estemporanea con Luca c’era Francesco.

Il cigolio della punta del trapano impigrito dal legno vecchio da perforare. Io in quelle mani spaccate dal lavoro ci ho perso la vista. In quelle rughe da artigiano ho visto il coraggio di una tradizione da mantenere. “Si papà, certo che mi piace”.
Egeo era una bolla perfetta, una porta spazio temporale da annusare
. La sua bottega, l’odore della colla densa, del legno levigato, quella segatura che pareva aggregata da una logica. Quel posto era una porta d’accesso agli anni che furono, lì al paese. Il negozio di Egeo era una pillola rassicurante per noi tutti . Passavamo da lì con una scusa, un saluto, sopratutto la sera mentre lui era ancora preso a dire e fare gli ultimi ritocchi che poi nessuno sarebbe stato in grado di notare ed apprezzare davvero.
Io, per esempio, non li ho mai notati ma gliene chiedevo spesso comunque conto. Io avrei pagato per vedere quegli occhi bluastri divaricarsi di soddisfazione e venir fuori, emozionati per l’occasione, dalla testa pelata, madida di sudore per il calore della lampada sul tavolaccio.
Gli fissavo le mani impolverate perché mi pareva potessero raccontarmi più storie e che in ogni loro crepa  avessero un ricordo preciso di suo padre.
Così, passavamo tutti lì come per dirci che niente era cambiato, che solo un altro giorno era stato speso e che fosse stato speso bene, oppure male da voler piangere, ognuno con la sua uniforme da uomo, ognuno con l’idea fintamente salvifica di continuare la sua vita, passavamo lì ed il fatto che Egeo fosse al suo posto sapeva rassicurarci tutti, ricomporre un mosaico già deciso.

A me hanno telefonato per ultimo, mentre guardavo un libro pieno di parole che non ricordo e che invece dovrei ricordare. Comincio ad avere qualche riccio bianco e nel caffè che mia madre mi urla se voglio, ogni pomeriggio, dopo pranzo, mi sento intrappolato. Fermo immobile in una vita che non risolvo ne determino. E così spendo giorni scorrendo righe, sottolineando manuali per raggiungere un’abilitazione che forse nemmeno voglio. E di tutti quei fogli, delle continue ispirazioni trasformate nei racconti che tengo chiusi nel mio quaderno, di quella carta che non ho il coraggio di far leggere nemmeno a me stesso, no, non so che farne e forse sono un altro peso che sa schiacciarmi.

Così io sono arrivato qualche minuto dopo…
Sulla spiaggia già vuota di fine estate calciavano sconclusionatamente un pallone. Francesco accennava una radiocronca: 05 luglio 1982, Italia Brasile 3-2 !
Le serate come quella erano un rifugiarsi nel tempo indietro e nei sogni assurdi che erano finiti, riposti, chissà dove e perché.
Li ho visti ridere, rincorrersi e tirarsi le magliette, abbracciarsi svanitamente felici al gol (“Rossi, Paolo Rossi…..”).
Quando la palla è finita in acqua ho chiuso gli occhi mentre loro, tuffandosi, spaccavano lo specchio del lago già bluastro di notte.
Ho chiuso gli occhi e quando Francesco mi ha chiesto che avessi, perché non parlassi mi sono sentito davvero felice.
Tutto bagnato, pallone alla mano, davanti a me.
Lui non aveva la barba, gli altri due avevano i capelli. “dai che inizia eh?!?!”
Mi ero solo appisolato. Dormivo ovunque, perennemente stanco e così mentre loro avevano iniziato a giocare là in spiaggia avevo dormito sotto la panchina.
“ah regà, me so sognato il risultato e voi da grandi”.
Cioè?”
“Adesso, dormivo no!?!?!? Ecco, me sognavo Egeo da vecchio, te mezzo pelato e poi venivamo qui che eravamo grossi, ma tutti eh, e giocavamo a calcio ricordandoci di sta partita che l’Italia aveva vinto”
“Tu mesà che sogni adesso ! Quelli so er brasile, ma che vincemo”

Ed io ridevo forte, perché pensavo a loro come li avevo visti da grandi ai loro lavori e quell’essere insoddisfatti, tutti. Per fortuna era una dimensione tutta mia, lì nel sonno sotto la panchina sgangherata.
Italia e Brasile, noi, in spiaggia, una sera fuori, qualche birra presa di nascosto e un pacchetto di sigarette.
Eravamo noi e ci sembrava d’avere mille anni davanti ed un  cassetto dei sogni si riempiva e si svuotava di continuo, che i sogni cambiassero, le speranze pure ma che loro, gli amici, non cambiassero mai.
Cazzo che tosse in quei primi tiri mentre Rossi corre in porta, la radio gracchia e là in spiaggia esultiamo pensando che stavolta l’Italia ce la fa, che è la riscossa, che il grande Brasile si inginocchierà, che vaffanculo, celabbiamofatta, tutto urlato, strozzato, ad ogni gol.

3-2 il risultato finale, l’Italia che vince e tutto ci sembra paradiso, quella notte infinita, la via un’assurda magia.
La fine della partita ci ha spaventati tutti proprio perché sembrava una fine, un nuovo inizio, un ultimo giorno di scuola che in realtà era ancora lontano.

“Oh Francé, ma te non c’hai paura di quando saremo grossi?”

“No, io no”

Egeo: “nemmeno io. Io vado a bottega da mi padre”

“Io non lo so che vorrei. Ma c’ho paura”.

Ed io ero rimasto in silenzio

“A me piacciono i cani, io.. io che ne so, divento veterinario”

“Io sai che c’è? Che non c’ho paura, perché adesso me fa schifo tutto e tutti quelli ce ce stanno a rovinà sto posto. E allora divento una guardia, così me rispettano e faccio rispettà le regole, cazzo. Anzi no, studio le regole, la legge e poi te faccio vedè io per esempio sta panchina, il parco più là se, si sistema”

“Se vabbè..c’avevo er Duce 2, ahahahahah. Però saresti bravo eh !”

“Ma tu che t’eri sognato poi come risultato della partita? perché poi infatti l’Italia ha pure vinto..”

Ed è stata quella l’unica bugia che gli ho detto.
Ho detto che il sogno non me lo ricordavo più.

Ed ho ingoiato saliva storta, per la paura, per la piega che la vita stava prendendo, di quel “tutto” così uguale al mio sogno di poco prima sotto alla panchina, di quel destino che pareva quindi perfettamente scritto
Parlavano ancora ed io li sentivo come soffusi, annebbiato dalla speranza di svegliarmi, fra un po’, dopo pochi minuti, con Francesco che mi rimproverava e con la partita ancora da giocare: 05 luglio 1982, Italia – Brasile.

“…Luna di Roma dimmi tu,
parlami delle canzoni che escono dagli edifici,
dei nostri sogni assurdi che si sono avverati…”

P.s. Il pezzo una risceneggiatura del un video ideato e realizzato da Francesco Falconi e dai suoi amici dei quali rimane la totale “proprietà” dell’idea originale. Video presto pubblicato anche qui su questo blog. Un grazie a Vale G senza la quale, fra le altre cose bele che mi sono capitate,  non avrei conosciuto Francesco e la sua cerchia di amici.

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