Rc, terzo round.

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Passeggiata sul bellissimo lungomare Falcomat

Foto by /tourvagando.blogspot.com

Rc, Reggio Calabria col suo piccolo aeroporto, col vento caldo che mi accoglie quando scendo dalla scaletta:

“buongiorno dottore”, e poi una sequela di sconclusionati movimenti al parcheggio taxi per accaparrarsi il cliente alzando la voce con il tassista più giovane, secondo una logica che con la normale fila e l’ordine di arrivo non c’entra nulla. Niente tassametro. Ha bisogno della ricevuta?

Nemmeno sull’indirizzo andiamo d’accordo: ora vorrebbe sapere esattamente dove devo andare. Cosa c’è un Hotel? Ma perché scusi lei che lavoro fa?

Ormai questa città ha un legame con me, un legame controverso.
Oggi ho visto la strada che dall’aeroporto va in città: km di degrado ambientale e strutturale, immondizia e panorami notevoli.
Un mare silenzioso ed azzurro veglia tutto.
Dalle piccole porte e dalle finestre persone diffidenti indagano chi passa.
Io passo e mi sento un estraneo, mi sento indagato senza nulla da nascondere se non i miei pensieri sul lavoro, sul da fare e voler tornare a casa.
Non ce la fanno, non riescono ad emergere: qui le persone sono in apnea, inconsapevolmente imbrigliate in una serie di piccoli comportamenti quotidiani che mortificano le loro stesse possibilità. Qui la gente si lagna senza capire che lo fa di se stessa, che vorrebbe fuggire qualcosa che continua invece ad alimentare.
Reggio Calabria è fra le città più degradate che ho visto e non parlo soltanto i urbanizzazione: qui percepisco sempre un senso di abbandono ed immobilità proprio di certi libri dell’800, di certe scene dei Malavoglia, di certi paesi secchi ed assolati.

No, basta, no è possibile: abbiamo mangiato della pizza, era ottima e ben cotta eppure superficialmente preparata con un’accozzaglia di ingredienti mal correlati fra loro. Ci tenevano a far bella figura, avevano preparato questo per me ed i colleghi ma ecco, non sono riusciti a preparare una pizza nell’ansia stessa di prepararla. Questa pizza identifica questa città. un’immensa grande possibilità mortificata dall’ansia di fare, di apparire, di nascondere quella che invece potrebbe essere una pizza migliore, tipica del posto, con ingredienti del posto. Invece no, loro preparano una pizza accozzaglia perché gli hanno detto di fare così, perché si sentono inferiori, perché pensano sia giusto anche se vorrebbero farne un’altra, perché devono fare quella.

Io la mangio e penso che non voglio tornare mai più, che ogni boccone mi va giù storto.

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