Metafisica di una pandemia e del suo isolamento

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Questo è il tempo di aspettare.

Questo isolamento a causa della pandemia sta cambiando in molti i ritmi delle giornate e sta facendo apprezzare cose e persone che prima venivano date per scontati. Gesti quotidiani come fare la spesa o salutare qualcuno per strada, andare a trovare un amico, sono diventati dei ricordi e dopo circa 40 giorni per i più ligi al dovere, posso dire che alcuni aspetti arrivano a sembrare ricordi di qualcosa di molto più lontano e nostalgico.
Ci stupiremo a ricordare le lunghe file al supermarket, i capelli lunghi e fuori colore di alcuni, le molte videochiamate, l’accelerazione tecnologica imposta dal virus in pochi giorni e non dalla pubblica ragione in tanti anni. Ricorderemo la bellezza ipotetica e non fruibile delle città vuote, specie come Roma, del silenzio estremo che nemmeno la notte ci offre, di fotografie che non potremo mai scattare non essendo liberi di andare a godere del fatto di essere liberi e soli. Un dolce amaro paradosso.

Ricorderemo, ne sono certo,capiremo, spero; apprezzeremo, forse.

Ho capito che il vero problema per molti è stare a casa da soli, ma non tanto da soli nel senso di senza nessun altro a casa, da soli nel senso psicologico del termine, autonomi. Una persona al di là del proprio lavoro e delle azioni quotidiane, al netto delle faccende e degli impegni, cosa, chi è?

Ritrovarsi chiusi in casa potendo solo coltivare passioni vere, distaccate da collaborazioni, aiuti, suggerimenti e stimoli altrui costringe a stringere il cerchio, a centrare su se stessi, appunto, il tempo. Ecco il problema dei quali sono zeppi i social netowork: ripetitivi contenuti copiati qui e là, umorismo riciclato già vecchio in partenza, lagne di vario livello, insofferenza indice di noia.
I social netwoork sono pieni di persone vuote e solo poche sanno essere stimolanti.

Il male è non apprezzare il silenzio, non saper essere e quindi non saper fare.
Al netto del lavoro e degli incontri giornalieri anche pragmatici di persone di fatto non del tutto conosciute in quanto tali ma solamente riconosciute nel loro ruolo utilitaristico, molte persone non sanno riconoscere se stesse, ritrovarsi, trovare lo scorrere del tempo, qualcosa che possa somigliare ad un filo logico, al bandolo della matassa.

La maggior parte è il proprio lavoro, oppure, diciamo meglio perché questo potrebbe anche indicare il coltivare una passione e seguire una abilità, molti sono incarnati nel loro lavoro, sono soltanto umanoidi impegnati in routine giornaliere, impegnati superficialmente e non mentalmente, passionalmente: sono illusi che un loro giorno sia pieno.
Le persone sono il loro lavoro, esistono in realtà solo in quel contesto e per il resto vivono le ore della giornata come trasferimento da e per il posto di lavoro essendo quindi delle non persone (analogia con “non posto” e la sua definizione).

Pensano qualcosa oltre il lavoro? L’esperimento sociale di questo isolamento, i contenuti dei social network indicano che molto si è perso, indicano che no, queste persone non sono nessuno al punto da non riuscire nemmeno a produrre una battuta, una lamentala originale; dimostrano, riciclando, ripetendo, di vivere passivamente perfino l’esperienza tecnologica più stimolante: internet e gli infiniti contenuti e possibilità offerte. Tizio fa una cosa, lo imito dicendo e facendo la stessa, curandomi però di omettere la fonte così che paia originale: il desiderio, appunto, è l’ affermazione. Forse un barlume di speranza c’è: il primo passo è capire che si è malati e scegliere di curarsi. Considerato il tentativo, puerile invero, di mostrare originalità, sagacia, appare evidente la consapevolezza di questa necessità e quindi della totale assenza di queste stesse qualità che si vorrebbero mostrare.

La retorica: di questo lungo isolamento ci rimarrà un odio, spero violento, per la retorica esplosa in disegni, frasi ripetute, pietismo e giornalismo banale, per il giornalismo sommerso con foto e video di repertorio spacciati per attuali.
Questo isolamento, questa attesa, ci ha consegnato leader mondiali e fantomatici illuminati giornalisti alle prese con affermazioni enucleate come profondissime scoperte: “fare un maggior numero di tamponi aiuterebbe a capire quanti infetti ci sono”. Incredibile, no? Se consideriamo che questo è il contenuto di un pensiero pronunciato in tv davanti a milioni di spettatori, possiamo figurarci il livello di noi altri al di qua dello schermo.

Ci rimarrà anche un forte senso di delusione e frustrazione, la consapevolezza che si è persa la capacità di agire per tempo, di cambiare e di adeguarsi: l’intelligenza, in una parola.

Quella che oggi sembra una difficoltà è nella realtà più semplicemente la “capacità” di essere in quanto essere umano, al di fuori delle esperienze di vita quotidiana, di vivere un proprio equilibrio, la capacità di non fare, di riposare oppure di fare operosamente qualcosa in cui si crede, che si vuole e che in genere, a causa del lavoro, non è possibile fare. L’insofferenza dimostrata è il niente ossia quanto molti hanno dentro. La maggior parte dentro non ha niente da fare, non sente nessuna pulsione se non quella di lavorare non facendone nemmeno una discorso utilitaristico di moneta e sopravvivenza ma quanto un fatto di mera operatività, di azioni cieche e sorde: giornaliere e meccaniche.

Ci sono stati aspetti psicologici e psichiatrici sottovalutati in questa pandemia e nel conseguente isolamento ed in molti ne stanno pagando le conseguenze ora oppure le pagheranno in futuro, magari proprio alla riapertura. Che le persone fossero clinicamente riconosciute come disagiate mentali, in difficoltà o altro, la realtà dei fatti è che mentre prima spingevamo alla socializzazione, alla comprensione, alla fiducia nell’altro, oggi professiamo riservatezza, clausura, verifica dell’altro. Equiparare tutta la popolazione alle stesse misure di isolamento è stato un grave errore ma si è reso necessario a causa dello scarso senso civico di questo popolo: la conseguenza è che alcune categorie di persone che hanno clinicamente bisogno di uscire per non rovinare, fra l’altro, il lavoro fatto in precedenza cercando appunto di evitare introversioni di varia natura, sono state recluse nella loro malattia tornando ad una solitudine senza pari, nemmeno spiegabile logicamente come avviene per le persone definite (o presunte) mentalmente stabili.

Sto osservando paradossi di persone che si recano fisicamente in un posto differente da quello di residenza per partecipare a riunioni virtuali annullando, di fatto, i benefici di strumenti e tecnologie, un po’ come se adesso comprassi qualcosa su amazon.com e poi andassi a ritirarlo di persona alla sede centrale ma cliccando su di un pulsante sul loro sito web mentre io sono lì, davanti a loro.

Il periodo qui sopra è la somma degli aspetti sopra visti: la scarsa autonomia, l’errata identificazione della persona nelle azioni quotidiane, l’inadeguatezza.

La bellezza della musica ad occhi chiusi, dell’assenza di rumori in strada, in casa, di poter lavorare con i volumi che si preferiscono senza dover pensare a modularli sulla base dei principi della convivenza, godersi una spazio nella bellezza delle sue forme, nella sua interezza; avere la possibilità di leggere avendo guadagnato tempo ogni giorno, di cucinarsi ciò che si preferisce, di riposare di più.
Ci pensate alla meraviglia del tempo, al ristoro di un sonno più lungo e sereno? Sapersi addormentare quando voluto: ho sempre creduto fosse una dote, un indice di serenità e sazietà dello spirito. L’idea del lavoro prolungato per più ore del solito senza che questo divori la vita privata, semplicemente alternando maggiormente le due sfere, che effetto fa alla mente? Oppure, ci pensate al recupero dei rapporti familiari ? Che siate in casa insieme, costretti a vivervi finalmente, oppure distanti, apprezzerete la famiglia: distanti, per la carenza di affetti, ci sarebbe una rivalutazione, vicini, invece, per la cura che potreste metterci ogni giorno nei singoli gesti.
Ho pensato alla consapevolezza, alla sicurezza che nulla si possa perdere di quello che davvero è radicato, che nulla è sprecato o messo da parte ma solo in un altro spazio, ora irraggiungibile. Ho pensato all’estremo gesto della mente sicura che ad occhi chiusi sa comunque rifugiarsi non tanto in un ricordo quanto nella certezza che quella situazione, quel calore, quell’affetto sarà ancora, prescindendo dai credi religiosi, nella reale pratica. Quanti rapporti leggo essere in crisi per la distanza, quanta irrequietezza, terrore nel non poter vedere qualcuno.

Ho pensato al suono di un orologio e le sue lancette, gli uccelli sulla finestra la mattina (di più quando ci metto le briciole di pane): sono stato investito da quel benefico senso di vuoto che avevo provato solo in India, dentro la pancia di certe città talvolta brulicanti, a volte invece silenziose e mistiche, annebbiate da una apparente indolenza che invece agli occhi più attenti appariva come meditazione e godimento.

Ecco, allora rileggo una lettera di Seneca a Lucilio:

Comportati così, Lucilio mio, rivendica il tuo diritto su te stesso e il tempo che fino ad oggi ti veniva portato via o carpito o andava perduto raccoglilo e fanne tesoro. Convinciti che è proprio così, come ti scrivo: certi momenti ci vengono portati via, altri sottratti e altri ancora si perdono nel vento. Ma la cosa più vergognosa è perder tempo per
negligenza. Pensaci bene: della nostra esistenza buona parte si dilegua nel fare il male, la maggior parte nel non far niente e tutta quanta nell’agire diversamente dal dovuto. Puoi indicarmi qualcuno che dia un giusto valore al suo tempo, e alla sua giornata, che capisca di morire ogni giorno?

Ecco il nostro errore: vediamo la morte davanti a noi e invece gran parte di essa è già alle nostre spalle: appartiene alla morte la vita passata. Dunque, Lucilio caro, fai quel che mi scrivi: metti a frutto ogni minuto; sarai meno schiavo del futuro, se ti impadronirai del presente. Tra un rinvio e l’altro la vita se ne va. Niente ci appartiene, Lucilio, solo il tempo è nostro. La natura ci ha reso padroni di questo solo bene, fuggevole e labile: chiunque voglia può privarcene. Gli uomini sono tanto sciocchi che se ottengono beni insignificanti, di nessun valore e in ogni caso compensabili, accettano che vengano loro messi in conto e, invece, nessuno pensa di dover niente per il tempo che ha ricevuto, quando è proprio l’unica cosa che neppure una persona riconoscente può restituire

 

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