Un poco piove e un poco il sole

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Le scaglie di mare illuminate a tratti occhieggiano da lontano mentre dal piccolo balcone indago i pochi sulla battigia.

Improvvisati pescatori, piccole grida di bimbi eccitati coprono la breve distanza, riempiono il vuoto del fondo del  vortice di quello che penso.
C’è un’aria umida che soffia costante e colpisce i muri scalcinandoli un po’, costringendo tutti ad una manutenzione mai del tutto eseguita così che l’aria sia opportunamente trasandata, così che mi ricordi un certo senso di lasciar correre che avevo visto solo in Malesia. Ieri sera ho sentito odore di pizza, di farina bruciacchiata sul fondo di un forno a legna e m’è venuta in mente un’estate quando avevo fretta di diventare grande e giravo in bicicletta in una Sicilia che poi m’avrebbe appassionato. Ho camminato sotto il sole per qualche centinaio di metri ripensando proprio a quel pedalare costante, a quelle estati da solo con gli zii, a quel senso si vuoto e di sufficienza, a quelle chiamate alla sera “si papà, sto bene, mi diverto”, al fatto che poi non era vero. Piccole onde si rigonfiano su sé stesse creando una schiuma timida. Qui mi pare che il mare non se la senta del tutto, che abbia capito d’essere stato circondato da un’urbanizzazione approssimativa e temporanea, non regolare, come infatti dev’essere successo attorno alla metà degli anni 70.

Troppe macchine percorrono lo stretto lungo mare disturbando il rumore di fondo delle piccole onde. Al mattino presto ho fatto finta che non mi piacesse, non so perché, con me stesso, ed invece mi attraeva quella pace così simile a  quella notturna che gusto mentre fumo un sigaro appoggiato al pesante tavolo di pietra. Ho guardato lontano e pensato alla scatola di pastelli colorati che avevo alle scuole elementari, a colori tipo “blu oltremare”, appunto, che io non usavo altrimenti mi sarebbe toccato temperarli, che sarebbero finiti e questo si, mi distruggeva. L’idea della fine mi ha sempre attanagliato e sono notti che ho ripreso a sognato la mia morte.Penso alle mie figlie, a cosa avrò trasferito prima ancora che lasciato: a tutti i discorsi non fatti, al tempo che non ho più speso, a quello che non mi sono preso, penso alle foto da sistemare, perse in chissà quale archiviazione che nessuno guarderà davvero mai, penso agli album mal composti, a quelli mai composti, al fatto che prima quasi nessuno scattava foto perché in pochi avevano una macchina fotografica, penso all’avvento della Polaroid, penso che in quegli anni poi le foto le si portava a stampare per poi metterle in un album che in effetti riguardavamo annoiando amici e parenti o cullando attimi di solitudine. Oggi tutti scattano e nessuno riguarda le foto, nessuno le custodisce: è come essere ricchi e non spendere mai. Penso ai pezzi da scrivere e sento dentro chiarissimo che non è questo lavoro quello che voglio fare che non voglio sentirmi schiacciato, che non voglio lasciare che sia, che non voglio lasciare che passi. Non so ancora cosa vorrei fare e c’è stato un attimo in cui il vento s’è pure fermato lasciandomi intendere una notte calda e difficile: forse, invece, me lo sono ficcato in testa io, ho fatto tutto da solo e poi il vento riprenderà a breve.Le due dormono sgangherate con le piccole gambe fatte di rosate pieghe, con le gambe piegate in modo che non so spiegare come possano reputare comodo.

Le osservo prima, le annuso, le sfioro sul viso in una carezza tutta mia che racchiude più di quanto di sicuro non possa sembrare: è un attimo prima di stendermi, un attimo prima di sentire la schiena allentare la tensione. Quel senso di rilassatezza mi ricorda che dovrei dimagrire, che ho rovinato il mio corpo gradualmente, soprattutto dopo aver smesso di giocare a pallacanestro, che lo ho consumato, che dovrei averne maggiore cura, proprio ora.

Qui un poco piove e un poco il sole, aspettiamo ogni giorno che questa estate finisca, che ogni incertezza svanisca

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