Viaggi: la teoria della grande cacca

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C’è un esatto momento in ognuno dei miei viaggi itineranti e ci penso proprio ora che dovrei organizzare a meglio il viaggio in Cina, ora che non ho tempo e che sto indietro e mi sento come quanto sei in cassa al supermarket e la cassiera è molto più veloce di te a passarti i prodotti mentre cerchi di imbustarli.

Fra le tappe, nel bel mezzo del tutto, sono spesso sopraffatto dalla smania di andare, di allontanarmi e perdermi, scoprire, mangiare e camminare.
Poi tutto d’un tratto comincio a pensare al ritorno e questo accade soprattutto (che mi piace sempre come parola perché ha 4 T e mi ricordo pure la voce della maestra che mi rimarcava questo concetto)  quando non ho neanche il biglietto di ritorno quindi 99% se viaggio in moto.
Così mi ritrovo spesso a pensare a tornare ma la malattia mi avvelena ancora e combatto e sento che devo andare ancora e procedo così in un loop infinito.
Poi c’è un attimo, quell’attimo, quello della grande cacca.
La chiamo così perché è una specie di sensazione interiore, un bisogno inspiegabile che prima non sentivo e che sento solo lì in quel momento, in quel posto, che percepisco come una grande liberazione che subito dopo mi farà stare meglio, che mi darà benessere e rilassatezza nel corpo e nella mente, che mi farà smettere si pensare a quel tarlo incessante che sentivo prima.
Un bisogno irrinunciabile, ecco perché il colorito paragone, per l’assoluto senso di liberazione e guarigione dalla malattia di andare, vedere.

Quello è il ritorno, quello è il momento nel quale tutto è maturo, tutto è digerito appunto, metabolizzato.
Da lì cominciano le grandi manovre di ritorno, i progetti al contrario, le tappe al rovescio, da lì comincia il rimuginare in senso positivo, l’assaporare certe situazioni che sembrano quelle che ti convincono ad accendere un sigaro dopo una grande grigliata.
In quel momento, solo in quello, sento lo zaino pieno, la testa soddisfatta, il cuore riempito e così, lento come un elefante, comincio a tornare, e prendo a sonnecchiare non svogliato ma consapevole, come riposassi dopo un grande lavoro, pensando che più invecchio e più è vero che il ritorno da senso al viaggio, che paradossalmente il ritorno è il momento più bello del viaggio.

Poi torno e mentre racconto tutto a mia madre e mi perdo fra le foto e tante parole entusiasmate già sento che mi torna la febbre, quella malattia ed è come se mi facesse tutto schifo, comprese quelle stesse foto, come se non bastasse, come se la malattia fosse tornata così forte e violenta da farmi traviare l’immagine, i ricordi.
Allora devo andare di nuovo per il parossismo rappresentato dall’idea di viaggio stessa.
Devo andare.
Poi vedremo dove.

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