Altalena

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emotions

Roma piange una pioggia sporca, un caffè scolorito, su una mattina di traffico rassegnato.

Guardo gli operai, lavorano lenti come pachidermi, i loro mezzi pesanti, gialli, colorati di fango. La radio parla di elezioni ed io mi tiro su pensando all’autostrada, alla riga bianca che la separa, a km da fare: a prescindere sto bene, un bene estemporaneo.

Ora resisto sulla banchina, sto cercando fra i passeggeri chi non incontrerò, ho un libro polveroso, fra le mani, lo leggo a fatica nelle pause che mi prendo dall’indagare la vita dei passeggeri.

Lascio passare treni,  per gestire l’emozione di temporeggiare, aspettare. Resisto e stringo i pugni immaginando una grossa e lenta clessidra. Sorrido un po e mi sembro felice, mancando la mia fermata, per scelta.
Arrivo più giù e torno indietro, così, per fottere l’orologio, per riascoltare un ricordo dolciastro.

Organizzo una grigliata a casa di amici, per sabato, pensando di dimenticare qualcosa, di allontanare e non pensare, ma poi mi ferisco con tutte quelle sfumature che finiscono per riportami a “prima” oppure a “poi”.

Poi sono felice , perché saluto i miei giocatori, con un lungo messaggio, perché è fine stagione e non li rivedrò tutti prima di partire per il mio corso. Sono felice, perché mi dicono che mi vogliono bene, semplice semplice, che sono un “grande” e così ho gli occhi lucidi, dal bene, e mi nascondo un po al bagno leggendoli, emozionato per come mi vedono, per tutte le volte che li avrò già delusi. E sono nel bagno, immaginando la loro faccia e la loro vergogna: qualcuno scrive sul gruppo, qualcuno in privato, intimorito dai sentimenti.

Ho sorriso per un mio tweet che ho creduto geniale, per la felicità e per l’approvazione di sconosciuti: effimera, ed ho finito per sentirmi un po solo, naufragato al bancone della piccola baguetteria dove Sergio mi dice che mi vede bene, oggi.
Ma è il mio clown, solo il mio clown, il trucco pesante del cerone che gli mostro.
E gli confermo che è così, ma è solo un’altra bugia, proprio ora che avevo cominciato a dire la verità.

Ripenso al mio tema alle elementari: “Io sono…una macchia di sporco” , allo stupore di chi aveva letto, di qualcuno che oggi, quando lo scrivo ancora, mi dice che no, non è vero anche se poi in qualche modo è costretto a pensarlo sul serio, lasciandomi ai miei contorni frastagliati di macchia improvvisa, un po’ indelebile, fra “purtroppo” e “per fortuna”.

“…non è colpa tua..” e poi mi sento comunque come se lo fosse, se lo fosse stato. Ed ora non sono felice.

Ma poi passa, o almeno questo è quello che mi dicono.

Valentina è medicina piccola e precisa e così nelle lunghe chiacchierate ed in qualche abbraccio ritrovo un po’ di pace ed un concetto complicato di rifugio.

Barbara e le parole, le esperienze vaporizzate fra mille sigarette,

Chiara e le sue telefonate fiume, fra risa rumorose, ricordi da compagni di banco, quintali di vissuto da sventolarmi per dimostrarmi che posso ancora dire, fare, baciare.

Simona e gli abbracci via e-mail, le parole semplici di saluto fatte dense dai link a canzoni che inavvertitamente risvegliano sempre qualcosa che mi sfinisce di ricordi.

Bevo un’altra birra, in un locale che adoro da sempre, anche solo per l’arredamento.  Tornado verso casa passo sotto la casa dove sono nato, e lascio di fretta la macchina accesa, i fari accesi, e scendo per leggere i cognomi sui citofoni, ed attraverso di fretta perché è così che facevo da bambino, senza guardare.
Ed compio gesti come se fossi sulla scena perfetta dell’ipotetico film, se il girato proseguisse poi col senso spietato del mio stupore per aver visto che c’è il nostro cognome lì sui citofoni, che non è successo niente, che domattina mio padre uscirà per andare al lavoro, che mi sveglieranno per andare a scuola.
Ma passo la mano sul viso incredulo per la scena perfetta che non è stata in effetti girata e sento la mia barba: sono già grande allora e la Renault 4  rossa di papà non è parcheggiata lì dove invece ho lasciato la mia auto accesa.

“Mai tornare nei luoghi dove si è stai felici”.  Infatti !
E’ stato così anche alla pizzeria, quella del venerdì sera, tornando dal campo, verso casa. Ci ho pensato proprio stasera, tirando dritto, lungo il vialetto, perché avevo paura ci fossero fiori, piccole margherite, lì nella siepe.

E notte e sul Gra non mi rifugio più, nemmeno alle stazioni di servizio: accelero come impazzito, cantando le Luci della centrale elettrica,  di una lei che aveva vestiti adatti per le sue guerre interstellari.

Ripenso a “costellazioni” e mi brucia il petto per un senso brutale, come di spreco, come quando la sabbia  passa alle mani, e mi odio un bel po.
Mando sms pieni di errori di ortografia e  Gian mi risponde da chissà quale serata.

Il sonno non arriva e sono di nuovo in panchina, ma senza giocatori, sotto casa, in giardino. E penso all’alba, sul Gra.

Chiamo timeout, prendo la lavagnetta e riordino le idee. I giocatori si siedono davanti a me mentre mi inginocchio stappando il pennarello, ma non sono i miei, mi guardano attenti.

Io sono bloccato e non riconosco nessuno e comincio a credere che il mio schema non funzionerà, che non so chi tira meglio, chi è più forte fisicamente, che il timeout sta scadendo.

Coach, ehi coach, allora ?

Ma è solo un sogno, è già sabato da qualche ora.

 

 

 

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