A Frosinone

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Stazione di Frosinone

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Frosinone: non ci ero mai sceso. L’occasione è stata quella dei Fasti Verolani, a Veroli, giorni fa. Una manifestazione di artisti di strada che si esibiscono a ripetizione nel piccolo e pittoresco paese. Una manifestazione fatta di musiche popolari, bancarelle, cibo saporito, trampolieri, giocolieri, mimi, comici: meriterebbe quindi un apposito resoconto, aver tempo.
Ma prima c’è la stazione di Frosinone.

C’è un bar ben fornito con baristi esperti e dall’uniforme brutta ma impeccabile, stirata tanto che si vedono le pieghe delle camicie bianche, bianche che ti chiedi come facciano non schizzarci su il caffè. Al bar ci sono pure i gelati ed il banco di una vera pasticceria: “le code di aragosta alla crema chantilly” : è il chiaro segno che siamo davanti ad una stazione di livello, in qualche modo storica senza edifici realmente tali, che siamo in un bar che con i distributori automatici di Termini fa a pugni e che rappresenta Ciociaria pura, buon cibo e scorci anni 80.

Poi succede che puoi sentirti in un film di Fellini e che in un attimo surreale entri un tipo sghimbescio e macilento, dagli occhi troppo vivi per non farti credere d’essere matto. Entra brandendo un panino enorme, mastica e si strozza, si vede chiaro che fatica a deglutire, ma morde ancora, rinfranca la sensazione come non fosse fastidiosa. Chiede a gesti un bicchiere d’acqua che il barista con le rughe sugli occhi gli serve con cura, dopo averlo sciacquato e risciacquato, dopo aver fatto scorrere l’acqua ed un tempo che a me pare interminabile, un tempo che mi fa sentire quella sensazione di “strangolamento da panino” nota solo a chi come me fa della fame un arte più che un bisogno.
Non contento, “il matto”, mima pure che ci vuole del ghiaccio dentro ed il barista che credo sia un campione di “gioco dei mimi” riesce a capirlo!
Intanto fuori le panchine sono assaltate da adolescenti perdigiorno che mi fanno ripensare a quei giovani sulle panchine dei libri di Pasolini. Stuzzicano una ragazza un po’ spostata, vagabonda e senza denti: così senza denti che mi fa pensare ai tossicodipendenti di Roma, negli anni 80, al film “amore tossico”.
Così i ragazzi finiscono per fare a botte fra loro e con la ragazza, per insultarsi con violenza mostrando tutto il degrado della solitudine e dell’abbandono, della droga che credono di saper nascondere e che invece si vede chiara, passata di mano in mano, venduta sotto gli occhi di chi ne ha viste più di loro e che fa finta di non vedere. Bustine di errori che capiranno più avanti, spero al prezzo di sola paura.
Osservo i sigari toscani vecchi ed accaldati venduti dal bar tabacchi ed allora ne sono certo: il bar è di livello anche se quei sigari saranno secchi da morire. Li comprerò lo stesso, per convincere il gestore a venderli ancora.
C’è una carta dell’Italia come quella della scuola elementare, verdina un po sbiadita, una carta come quella che avevamo in classe io e Gianvincenzo: vedendoci su “Bastardo” continuavamo a ridere per il nome chiedendoci come potesse un paese chiamarsi così. Non ci sono mai stato, penso che ci andrò, magari in Vespa. Poi divento triste senza motivo, forse perché mi pare di ricordare che è lontano ed allora c’ho addosso una sensazione di paura come solo i parcheggi vuoti dei centri commerciali mi sanno fare.
Meglio rientrare. Come potevo non comprare un Cucciolone ? Adesso lo vendono con la scritta maxi e lo spot pubblicitario dell’epoca, quello dei “10 morsi” (finti) è solo un altro ricordo. La parte migliore ma pure più illusoria è sempre lo zabaione: lo mangio per ultimo. Le barzellette scritte su col cioccolato non le leggo più perché sono meno ridicole di anni fa ed a me quella comicità così stupida piaceva leggerla di fretta prima di mordere o subito dopo il primo gran morso che ti lasciava col dubbio di aver mangiato la parte di barzelletta nella quale, finalmente, si rideva sul serio.
Un sigaro, fumato nel silenzio del binario 1. Intanto la ragazza tossicodipendente s’è liberata dei ragazzini con l’aiuto della Polfer: gli è bastato mostrare l’uniforme, anche se poi hanno atteso che io ed il barista li esortassimo ad uscire a farsi vedere.
La ragazza bacia forte sulla guancia il muto del panino: ecco perché mimava, è muto, e nel frattempo non s’è strozzato col panino. 
Lo bacia dopo averlo insultato dicendogli che è brutto.
In quei baci e nei sorrisi sdentati dalla droga ci vedo comprensione, condivisione e mi sento felice, più felice di quando mangio lo zabaione del Cucciolone.
Fuori c’è il sole sulle pozzanghere, un palazzetto bello ma male tenuto che pare di un epoca in cui l’Italia era “ligia al dovere”, dentro invece c’è una sala d’aspetto malconcia e vecchia, triste perché senza nessuno che aspetta. 
3 binari e qualche cartello in più della stazione più giù, quella di casa: sto meglio lì.  Sul bar però, ahimé, non c’è proprio confronto.
Tintinna la campanella perché arriva un treno e me la gusto da solo, sbuffando il fumo.
Tu non lo stai che me ne sto qui a scrivere velocissimo, che ho pensato tutto questo e che se lo rileggo avrò voglia di cancellarlo.
Mi sento bene, stai per arrivare ed ogni giorno mi riesco a sentire come se venissi a salvarmi, perfino da me stesso.

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