Salire, discendere, capire

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risaia thailandese

Quando si accosciò nell’umido degli steli delle piante del riso, riuscì a sentire perfettamente il rumore di fango annacquato. Il suo piede, sprofondava nel terreno succoso.

La salita dura di un paio d’ore gli aveva sballato il cuore e gli fece sentire il collo turgido e gonfio. Passandosi una mano sul viso madido di sudore rifiatò e si pensò rosso in viso, annusando l’aria rinfrescata dalla pioggia del Monsone.

Dal picco dell’ultima collina spersa fra le montagne mai viste prima sulle carte in distribuzione all’ufficio turistico, sbucava quella risaia verde e prepotente. Si stagliava decisa nel grigio della nebbia che il caldo umido della Thailandia, mescolato alla pioggia, aveva creato.
Lungo il cammino bufali selvaggi ed insetti mai visti: la giungla brulicava di colori e gli sembrò una tavolozza perfetta. Lunghi lombrichi, attorcigliati all’inverosimile su sterpi storti e gocciolanti, oppure dritti come fusi, distesi lungo il sentiero appena battuto. Li osservò sgomitare per avanzare, sfruttare le piccole gocce di pioggia per oliare un percorso faticosissimo: spingere, sgomitare, avanti una spalla, poi l’altra, senza mai mollare.

Il fragore dei torrenti lo fece rabbrividire: da un’altura ne vide uno gonfiarsi, annunciato dal rumore dell’acqua che correva da poco più su. Gli sembrò che qualcuno avesse tolto un tappo, come quanto era bambino e sua madre stappava la vasca lasciandolo immobile a rimirare il mulinello dell’acqua fuggente.
Dovette guadarlo, sceso più a valle, con lo zaino retto sulla testa, sfidando la corrente più forte di quanto avesse potuto credere, visto il piccolo letto. Ma la pioggia di ore prima, mentre saliva affannato, aveva cambiato tutto: l’umore, il paesaggio, il comportamento degli animali.

Muscolose formiche lavoravano veloci: rosse, gli sembrarono rosse per la fatica, poi le scoprì stupefacenti per le forme  affusolate dei loro arti così precisi nei movimenti.
Si fermò a guardarle, immobile, facendo dei suoi piedi un’ ostacolo immobile, semplice appoggio per sostare e riflettere senza turbare quell’estrema disciplina di lavoro. Gli uccelli fischiavano dagli alberi alti e le gocce così grosse confondevano i suoni sbattendo sulla cerata, sul suo cappello.
Passando le mani sulla punta degli steli della piccola risaia ripensava a quella salita disperata, si sentì disarmato: niente a coprire, oltre i vestiti, nessuna tecnologia, nessuno strumento, niente attorno. Pioggia e  pioggia, i vestiti bagnati, le scarpe sommerse, torrenti da guardare, salite fra sterpaglie e nessun sentiero riconoscibile.
Era salito come attratto da una fede cieca, calamitato dal giungere a chissà dove o cosa, senza che gli fosse chiaro il reale obiettivo. “Oltre la salita”, pensò, “dev’essere lassù” e “devo arrivarci, come il lombrico, come le formiche, operare, insistere”.

Accarezzando quella natura così fresca e giovane, quel verde rigoglioso, ripensò alla sua scrivania, al suo computer: e gli sembrò scioccamente di aver già lasciato tutto, per sempre. Respirò lento ed a fondo, per insaccare più aria possibile. Dalla nebbiolina, il giallo di un cappello di paglia nascondeva una donna raggrinzita che seguiva un bufalo diligente, intento a percorrere una linea sbilenca nel fango, un solco di agricoltura primitiva utile al riso che sarebbe cresciuto nei giorni a venire.
Si sedette allora, senza riuscire a scattare una foto. Ora si, era arrivato, pur senza ancora capire bene dove. Si sedette e capì d’essere giunto.

Si sentì sbagliato, povero e perso davanti a tanta semplicità e solitudine primordiale, davanti a tanta natura ed a quel silenzio che pensava questione di mille anni prima.
Ora c’era anche lui, lì, ora era regredito alla condizione umana migliore, essenziale.
Che ne era di quegli irrinunciabili stati di necessità quotidiane, della scuola, delle forme geometriche sui libri di scuola, della storia stessa, cosa ne era della auto e del telefono ? Sbigottì, trovandosi a domandarsi se davvero quelle cose potessero servire, se le strutture, le impalcature della vita fossero davvero necessità, migliorie.

“Oh, certo che sì”, mormorò rispondendosi poco dopo. “Utilissime”.
Eppure lo stupore di quella natura così essenziale gli riempiva gli occhi, ammorbidiva la mente e gli faceva da balsamo all’anima.

Si sentì arrivato, finalmente. E decise che sarebbe sceso, prima o poi, dal villaggio di case dal tetto di fango, dai vicoletti dove piccoli e neri maiali scorrazzavano liberi. Sarebbe sceso dalla schiena di quella scura montagna infittita di verde, giù per sentieri nuovi e diversi, con gli stessi piedi, ora però capaci di seguire nuove tracce.

Lavandosi di fretta, col fiato mozzato dal freddo dell’acqua, corrente della montagna, lo vidi ridere, poi aumentare il volume della risata; ricordo chiarissima la piega che prese la sua barba, spinta da quella smorfia di consapevolezza che mi sembrò assoluta. La stessa consapevolezza  che ancora non ho saputo trovare, a monte ed a valle di quella montagna dove lui realizzò quell’assoluta e nutriente verità.

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