Dala

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Dala, una gioda turistica

Così appena al di là del fiume, Dala ci aspettava silenziosa e scura come una marea notturna.

Grossi e panciuti traghetti ogni 20’ attraversano la Yangoon River per trasbordare circa 1000 persone alla volta fra pendolari e Dio solo sa cos’altro. Una piccola strada fangosa conduce al molo dove s’affollano umani ed animali pronti per salire sul prossimo traghetto. C’è confusione, un piccolo mercato lungo la strada, gente che grida, che vende biglietti di quella che credo essere qualcosa di simile ad una lotteria; c’è polvere e caldo, c’è gente scalza che ci offre del cibo, ci sono gli immancabili rollatori di foglie di betel.

Dei cani malati bivaccano fra la gente in cerca di cibo o qualche lite per sentirsi ancora vivi:  scorticati da malattie della pelle e denutriti fino a barcollare ora ringhiano, ora osservano guardinghi poco dopo aver finito di leccare rimasugli di cibo poco raccomandabile già in partenza.
Consunti stracci avvolgono i risoluti venditori mentre qualche donna cerca di rendere decente il telo che funge da base per la sua bancarella. A fatica possiamo distinguere chi è in fila per l’imbarco, chi invece ha già il suo biglietto, chi sta solo curiosando fra le bancarelle e chi è intento ad aiutare il tipo che deve imbarcare quei polli, vivi, legati con uno spago.

 

Due occhi scuri e vivi ci catturano da lontano puntandoci: una ragazza molto giovane con buonissimo inglese ci spiega che può aiutarci, che non vorrà dei soldi, che ci accompagnerà a Dala della quale a dire il vero abbiamo letto poco se non che rappresenti la vera anima, povera e nera, giusto dall’altro lato del fiume di una città che si atteggia a neo-metropoli fra tecnologia e prove di benessere.
Ci accompagna alla biglietteria dove scopriamo l’unico cartello in lingua inglese che, guarda caso, spiega che gli stranieri debbono pagare il biglietto più che i locali. La gabella nota in molti angoli di Asia non ci lascia perplessi e certi di aiutare qualche affamato e furbo per bisogno paghiamo ricevendo in omaggio una bottiglietta di acqua minerale ciascuno.

Il viaggio è breve eppure così denso di confronti e spiegazioni: capiamo da subito che le dovremo necessariamente pagare qualcosa ma tutto sommato avere una guida che parla inglese e che sa districarsi in quell’ambiente è comodo ed in qualche modo rassicurante. Il traghetto sovrappeso si muove lento ed è incredibile vedere come ci abbiano trovato posto sul ponte superiore, a favore di navigazione, in un buon punto per le fotografie nonostante la grande ma rispettosa ressa dei pendolari si fosse da subito attivata per guadagnare posto a sedere. È incredibile la moltitudine, le suppellettili trascinate, il cibo di fortuna venduto, gli animali e le biciclette caricate, il fatto che quasi ognuno trovi posto su precarie sedie di plastica disposte ordinatamente a centinaia sul ponte inferiore.

Qualche giovane si scatta una foto con un telefono cellulare già vecchio anni fa, una pseudo modella si lascia catturare dall’obiettivo di 3 giovani che forse lavorano per una sgangherata tv; noi intanto curiosiamo e scattiamo a nostra volta, parliamo di scuola, politica, cucina e vita comune. Forse questa ragazza è la chiave di volta, il punto di accesso, il portale per comprendere.
Eccoci, sento che siamo al momento della “grande cacca”, che il viaggio è maturato, che quest’ultima tappa mi spiegherà tutto, sento che mi rivelerà il segreto di questi posti, le storie di queste persone. Sento che il resto del viaggio avrà meno peso specifico, che tutto questo mi avvicina all’India, a Dio.

Strizzo gli occhi guardando l’orizzonte, le case malconce, le piccole palafitte che intravedo sulla riva opposta: più le vedo vicine più cresce un misto di smania e curiosità, di certezza per l’orrore di vita vera che andremo a toccare. Più mi avvicino più sento di conoscere quelle storie, di averle in grossa parte già viste, già in qualche modo capite; sento dentro l’urgenza di andare, di terminare qui il viaggio, capendo tutto, rifiutando questo ritorno a Yangon vissuto come piccolo rifiato prima di tornare a lavoro. Sento dentro ingrossarsi un torrente di parole, un’urgenza di scriverle, il solito malessere di non sapere in pieno spiegare.

Scendiamo gustandoci lo spettacolo della folla pulsante che come un mucchio di vermi scuri si dimena per giungere all’imbocco del piccolo varco di uscita, alla piccola porticina che dà alla scaletta di discesa. Mi accerto che ci siano altri traghetti di ritorno e mi rassicurano ce ne saranno decine fino a sera.

Intanto la scuola, lo studio, le possibilità ed i confronti con la nostra civiltà tengono banco nei discorsi almeno finché 3 ragazzi e le loro bici pronte all’uso non ci lasciano intendere che la nostra guida è d’accordo con loro e ci chiederà un offerta per questo servizio di risciò.
Guardiamo nervosamente la mappa, scocciati per l’ulteriore gabella che ci fa traballare e star male all’idea di aver frainteso, che ci fa dubitare di noi e la nostra esperienza, del fidarci, di aver inquadrato bene la situazione.
Di fatto, vedi? Qui non esiste niente, un registro, una traccia, una legge, una civiltà: potrebbero ucciderti, derubarti, potresti essere dimenticato. Eppure, non senti questo pericolo né intravedi questa possibilità fra incoscienza ed esperienza. Così visto che la mappa ci mostra un groviglio di piccole strade e che il molo rivela una situazione molto simile a centinaia di città indiane per inquinamento, confusione, estrema povertà e sporcizia, crediamo sia il caso di fidarci e lo dico in anticipo: non ci sbaglieremo.

 Dala è a sua volta divisa in piccoli sobborghi abitati per lo più dalla stessa tipologia di persone della stessa estrazione sociale la stessa professione. Attracchiamo vicino quello che dovrebbe essere una sorta di villaggio di pescatori. Ammutoliamo davanti le piccole palafitte, davanti i cumuli di plastica abbandonata, al fumo lento e sottile che esce dai piccoli roghi che idealmente servirebbero per pulire. Il confezionamento dei prodotti sta rovinando l’Asia: posti come questo e come l’India non gestiscono minimamente i rifiuti ed è incredibile come il concetto di “sporco” riferito alle nostre città e questi posti sia del tutto differente, relativo.
La terra è umida e colorata dai mille incarti ormai mescolati sotto pochi cm di terreno, le case sbilenche ed insalubri, ficcate su terreni fangosi, le imbarcazioni e le piccole attrezzature paiono annodate fra loro tanto è il numero, e chiedo subito se quanto pescano gli è almeno sufficiente per vivere. È una risposta relativa quella che arriva: si, vedi? Per lei è un si, per me è un no, a loro pare bastare.
Piccole e magre gambe, scure di carnagione, camminano dignitose nel fango, giocano sulle piccole porte di quelle palafitte mentre i genitori riposano ora su una barca, una su un’improvvisata amaca fissata fra due pareti della casa. Nudi e sorridenti, scarni, i bambini ed i loro occhi tondi e scuri mi osservano sorridendo, curiosi ma spaventati. Qui l’uomo bianco alto è piuttosto raro e solo pochi turisti si avventurano su questa sponda del fiume cercando qualcuno vana gloria da benefattore, qualcuno qualche foto ad effetto, altri, come me un misto di conoscenza che non gode di voyeurismo ma che si nutre appunto di esperienza di vita quotidiana, di lezioni utili a mettere a fuoco la nostra quotidianità.

Scatto in silenzio, catturo, appunto mentalmente mentre le ciabatte della nostra guida si muovono sicure dove stentano le nostre tecniche scarpe da trekking. Ci sono scuole, chiese, moschee, piccoli mercati: Dala è una città vera e reale sebbene paia il set di uno gigantesco film sulla distopia di un futuro non troppo fantasioso.

Le piccole bici rispondono ai comandi, alla curiosità di andare a cercare, vedere: l’abbrivio mi fa sentire in colpa visto il peso mentre le loro ruote piccine si scavano tracce fra il fango e la sola poca energia che i portatori hanno nelle gambe è fornita da qualche noce di betel masticata dal mattino.

Ci sono scorci assolutamente più decenti, organizzati, ma nel complesso Dala è moltitudine, piccoli roghi, disorganizzazione, gente che vive ovunque, dalle sponde del fiume al bordo strada, fra i campi, vicino un cumulo di immondizia da vigilare e gestire. Dala è sporca e scura, vera e cruda e le sue persone sono eroicamente in piedi, dirette verso un futuro vuoto, incalcolabile, verso giornate non fruibili, verso nessuna possibilità né statistiche che possa contenerli.
Penso ai dati ONU, alle conferenze internazionali, a chi parla di inquinamento, agli accordi fra potenze economiche, penso alla fame nel mondo, mi chiedo se qui sarebbe tutto più decente e salubre se solo non fosse giunto il progresso, se non fosse arrivata la plastica. Di certo il governo non ha fatto molto non solo per Dala ma per il Myanamar tutto, di certo la sua storia e la sua politica complicate hanno determinato questa ed altre contraddizioni.

Ho notato piccoli cimiteri e mi hanno spiegato che il governo ha scelto di “costruirli” li, vicino le loro abitazioni, per favorire un senso di appartenenza, per tenere i cari defunti nei pressi delle loro case. Peccato che le sepolture siano approssimative, che in quei terreni ci si coltivi e passino corsi d’acqua, che tutto diventi quindi settico. Qui le persone sono state in qualche modo deportare dal governo militarizzato: ad una serie di espropri sono seguite assegnazioni di terre nella realtà dei fatti non coltivabili per via della carenza di infrastrutture generali come scuole, ospedali, acqua corrente, strade, centri di approvvigionamento per sementi e materiali.

Qui le persone per cultura e per decenza, per religione, non ultimo per salvarsi, si allontanano dai cimiteri e ricostruiscono le loro case poco distanti, su terreni ancora meno affidabili in termini di consistenza. Le foltissime risaie non sono di proprietà di chi le coltiva ed il governo vigila sul raccolto determinando di fatto una popolazione di operai poveri e denutriti in grado di fornire parecchio riso venduto, monetizzato altrove. Ne nasce un disagio sociale, un’effettiva continua necessità, ne nascono condizioni di rabbia, malcontento pubblico governato violentemente dalla polizia, domestico, non gestibile, catalizzato in violenza gratuita, piccoli furti, piccole famiglie distrutte.

Molti bevono alcolici distillati non so bene come e finiscono ubriachi a girovagare per il sobborgo, a dormire a bordo risaia.

Sulla strada costituita da sacchi di terra che emergono delle risaie camminiamo in fila indiana scoprendo scorci malconci ma bellissimi, piccolissimi birmani intenti nelle faccende comuni, scopriamo una decenza infinita nei gesti semplici come lavare i pochi abiti di cui si dispone nell’acqua torbida di un torrente che scorre a bordo risaia. Qui alcuni turisti, ci dice la giovane guida, hanno inviato dei bagni chimici che però sono ormai usati come semplici esili mura di un improvvisato bagno e non più come reale chimica soluzione; gli escrementi vengono raccolti in un canalone che scorre appunto da lì sotto e finisce per inquinare tutta l’acqua circostante. Mosche, zanzare ed odore fetido ne sono la riprova.

Poco più avanti alcuni occhi ci scrutano da dietro le fessure delle capanne dove gli adulti sonnecchiano e i più piccoli giocano con improvvisati giocattoli. Un uomo blatera barcollando fra un sacco e l’altro della piccola strada che si dipana fra le piante di riso. Qualcuno gli urla dietro. E’ ubriaco, mi spiega la guida, ha litigato con la moglie, così dicono, riferisce. Pochi metri e l’uomo vibra pugno nel vuoto, poi perde l’equilibrio e cade dentro una risaia, lo vediamo da lontano e non lo vediamo rialzarsi. Ci avviciniamo in silenzio per capire che fine avesse fatto ma nell’acqua fangosa non riconosciamo la sua forma, è sprofondato. D’improvviso ne vediamo solo il piccolo naso: è incredibile ma sta affogando in pochi cm di acqua. Il più nerboruto dei 3 guidatori di bici lo tira su e lo posa colante di acqua e fango, seduto alla buona, a colare: lui è furente ma spento nel corpo, cotto dall’alcool. Questo, ci dicono, capita spesso: la gente affoga in risaia perché stordita da alcoli o droghe varie. Questa è l’espressione di un fortissimo disagio, il risultato di una politica repressiva, di un governo non solo giustamente autoritario ma cieco e corrotto, sordo ai bisogni sociali, arcaico ed ingordo.

C’è poco da fare, per ora e tutto sommato la storia di questo paese sebbene sia cambiata profondamente negli ultimi anni ha ancora tanto da dire. Parliamo di come il governo gestisce o potrebbe gestire queste situazioni, urbanizzare, e finiamo per passare davanti a quello che mi è sembrato il mercato più decente, pulito ed organizzato per quanto queste parole però possano essere riferite a questo continente in senso generale riferito al nostro comune riferimento.
Un grossista di riso e sementi vari, ci spiega la guida, si occupa di consegnare il riso nel villaggio visto poco prima ed offre sacchi di riso a prezzo conveniente per chi decide di comprarlo per donare. Con il consueto dubbio della truffa bonaria e la voglia di aiutare qualcuno decidiamo comunque di spendere l’equivalente di 30 dollari per mezzo sacco di riso che ci propongono sorridenti di firmare e fotografare per immortalare il momento. Scelgo di fotografare i sacchi di riso, le persone, l’ambiente, ma non di farci una foto ricordo, di posare davanti ad un’opera di bene, ammesso vada a segno.
Penso che quel riso possa sfamare qualche famiglia, riempire la ciotola impolverata di quei bambini, restituire un po di riso alla pancia di chi lo coltiva, penso che potremmo fare di più, impazzire, trasferirci a Yangon, impiantare qualche attività, aiutare, collaborare, ma è tutto molto grande, tutto molto difficile e legato a politiche che superano la voglia dei pochi singoli. Il cambiamento deve attendere e non passerà certo per noi, purtroppo.

Questa giornata andrà via con 50 dollari spesi, una cifra che in quest’area è roba da ricchi, che assicura un paio di notti in albergo, qualche pasto più che decente: cose assolutamente non alla portata di tutti qui. Ci penso su: ecco, se anche mi avessero truffato, cosa che non credo e rafforzo poco dopo, cosa ho perso? È valsa la pensa rischiare, ho rinunciato ad una cena a Roma.

La barca sembra sovrappeso e pare macinare i fondali spostandosi lenta, manovrando nell’ansa del fiume per posizionarsi e farci salire. È passata qualche ora, c’è meno fermento ora, c’è fame: la gente è stanca e meno attiva, sterminata da fatica e fame: alcuni tornano dal lavoro e sono certo non abbiamo mangiato, immagino che conservino la paga per la famiglia e questo mi distrugge cuore e determinazione. Ficco lo sguardo nel mirino nascondendo qualche pensiero buio, scatto cercando facce, colori, qualcosa che possa fissare questo momento e questi pensieri.
Siamo in silenzio, non stupiti però: Dala è quanto sospettavamo, quanto ci aspettavamo, Dala è vera, è Asia e tutti dovrebbero passarci per capire, per capirla, per rifiutare il più possibile la plastica che qui viene usata e non smaltita, viene esportata, scaricata dai paesi che si definiscono ricchi ed evoluti.
Dala è lì e ci aspetta ancora, in silenzio, scura ed affamata, col suo cielo che pare più torvo anche quando è bel tempo, con la sua gente, i piccoli mercati, gli operai del pesce, i bambini dimenticati e non istruiti, i piccoli roghi per smaltire rifiuti.
Dala è la fine del nostro viaggio:  ci lascerà pensierosi, rifiatando nella parte migliore di Yangoon, fra appunti da sistemare, foto da archiviare, una storia meravigliosa vissuta.

Così questa era la Birmania, il Myanamar, come lo chiamano ora, oggi; così questo era il nostro viaggio, un’altra parentesi di Asia, un altro piccolo angolo da scoprire, che sento come solo assaggiato sebbene indagato a fondo per qualche giorno.
So già che non scriverò oltre di questo viaggio, che ho bisogno di riordinare idee e parole, appunti, che ho bisogno di rimanere un po’ in silenzio e gustarmi queste ultime ore qui, sognando di tornare, di trasferirmi in Asia come in qualche modo ho promesso a me stesso tempo fa.

 

 

 

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