Prodromi di un viaggio verso nord

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Una settimana di decompressione nella piccola fattoria di famiglia è servita a disconnettermi dal lavoro, a godermi qualche giorno con mia madre, ad essere più consapevole che il tempo non sarà poi così clemente.
Mi sento soddisfatto di me, per le idee che vado inseguendo rispetto al progetto maximo di cambiare lavoro ed in grossa parte vita; certo potrei dimagrire e sentirmi migliore ma per ora mi affido a qualche km in bici per dirmi che si, miglioro, faccio di più, mi do una mossa.
Pedalare nella piccola contrada di Melfi rilassa la mente, prepara il corpo e come in Vespa, andando piano, lascia scoprire angoli ed aspetti che in auto non avevo notato. Su per le salit silenziose mi rassegno positivamente, insisto, rilasso le gambe quando il fresco del mattino mi sorprende nelle breve discese; fra le gole del fiume reso secco dall’estate e da una furia consumistica della zona che dovremmo combattere con più forza, ritrovo i pensieri migliori fra pallacanestro e progetti per il viaggio. Così spingo sui pedali, penso al volo, ad un quintetto da mettere in campo, a prenotare il parcheggio, al fatto che posso farcela, che non ci vuole poi tanto coraggio a cambiare quel che non mi piace né ce ne vuole per la prossima salita. Sto meglio del previsto.

Europa unita: fra false differenze, stereotipi e scarsa etica.

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L’Europa è sempre più unita e le differenze fra stati sempre meno. 

Non ci credete?
La virtuosa Germania fatta di regole, serietà e governi stabilissimi, infatti, sta dimostrando che le differenze fra stati vanno assottigliandosi o che, meglio ancora, forse non ci sono mai state. Dietro un bel vestito pubblico emergono in realtà malcelati problemi di etica ben peggiori che altrove. 
Purtroppo da noi la stampa si occupa di piccoli politicanti e di problemi serissimi quali l’estate 2020 e le migliori kisure da adottare per andare al mare in sicurezza preoccupandoci delle difficoltà economiche di stabilimenti balneari che per anni hanno evaso le tasse e mai rispettato natura e clienti. Un inciso: Che questa pandemia abbi allineato il loro reddito con quanto hanno sempre dichiarato? 
Insomma in Germania funziona tutto, perfino Il malaffare! Continua a leggere….

Io non voglio vederti

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donna fuori fuoco

Io non vorrei incontrati né parlarti mai più.

Quando non ci sono tu sei un’immagine, quell’immagine: la foto di un istante, di una espressione, tu sei esattamente come ti vedo quando io ti penso avendo colto quelle espressioni, quei piccoli particolari che noto solo io.

Quando non ci sono sei al riparo dalle mie parole, dalle reazioni che provocano, dall’idea che ti spunta sul viso quando diciamo certe parole che pronunciate diventano preziose per via di quella che pare essere la loro forma, a volte rotonda, a volte più spigolosa ma comunque una forma da osservare.
Io non voglio vederti né parlarti perché tu sei una parola che va detta da sola e tutto d’un fiato, non in un discorso, altrimenti non è più se stessa e diventa corrotta dagli altri suoni. Continua a leggere….

Dimenticare

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Vorrei imparare dal vento, vorrei imparare a spazzare, scacciare, andare lontano, passare sopra le cose, ad esserci sempre, ad infuriare e solo quando serve, a saperci fare col mare e con le montagne, a cambiare, ad avere stagioni, a saper tornare in India ogni anno, almeno un paio di volte.

L’unica cosa che non ho capito è se davvero il vento porti con se qualcosa, anche granelli, come fossero memoria, oppure se sia capace davvero di pulire tutto, di sgomberare. Che bella parola, “sgomberare“.

Allora se così fosse, se portasse comunque via quei frammenti di memoria, quei granelli confusi ma numerosi, allora no, non vorrei essere come il vento perché mi interessa dimenticare certe cose, non rinnegarle, proprio dimenticarle, anche se dimenticare non è la condizione più ambita ma, semplificando, è una condizione che aprirebbe le porte a riscoprire.

Ma se riscoprissi significherebbe che ho si dimenticato ma nuovamente patito le cose negative. Si, avrei anche lo stupore di quelle cose belle, dell’amore, ma soffrirei per tutto quello che ogni giorno con violento schifo vorrei non esistesse, compresa certa gente.
Mi incastro a pensare, in un senso e nell’opposto.

Ho già imparato dal vento: faccio mulinelli.

P.s. Non c’è una foto, ho dimenticato di inserirla, sono a buon punto

L’urlo

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Coach Soldini, Aurelio 2018-2019

Coach Soldini, Aurelio 2018-2019

Gli allenamenti sono un attesa.
Tecnicamente sono essenziali ma emotivamente sono un’attesa.
Quel che conta è la gara, la partita, la battaglia, il rumore che fa lo scontro.

Quello che mi manca non è il discorso pre partita che pure mi emoziona a certe volte fa lacrimare alle mie stesse parole.

Quello che mi manca è la paura, il subbuglio interiore che monta, l’irreparabile sensazione che tutto si avvicina: quando usciamo dal piccolo tunnel è come emergere da un’apnea, un esplodere di quei rumori che chiusi dentro il nostro spogliatoio sentivamo attutiti.
Quel che mi manca è quella sensazione ingestibile di paura che mi fa muovere veloce, che mi fa bere fingendomi tranquillo mentre seguo i miei riti arrivando in panchina, facendo il gesto del buon cristiano, bussando 3 volte sul legno della mia lavagnetta per svegliare gli dei della pallacanestro.
Quelli sono i momenti che mi mancano: quando arriva il momento di rifare l’urlo che dentro lo spogliatoi era lo stesso ma meno intenso.

In quel momento dentro si sente di tutto, compreso il cuore che sballa qualche rintocco: dentro lo spogliatoio le parole ci hanno infuocati, le strategie rassicurati, ma il rumore arrivati in campo ci ha spaventati; lo fa da sempre, lo farà per sempre: che lo si ammetta oppure meno.
Mi manca quel momento in cui tutti hanno paura ma nessuno sa più niente dell’altro: ognuno pensa d’essere il solo e cerca lo sguardo degli altri.
Allora c’è un attimo in cui dico semplicemente “quà!”, e tutti completano il cerchio di cui io sono il primo punto della circonferenza.
Ognuno mette la sua mano al centro, io tengo la mia sotto a tutte, perché li reggo, perché li sostengo, perché posso farmi schiacciare ma li terrò a galla, quello è il senso della mia mano sotto tutte le loro.
Allora gridiamo, il nostro grido: quello è il momento in cui la paura vola via, in cui ognuno si sente sicuro, rassicurato, protetto, in cui ognuno di noi è sollevato perché è convinto che fosse il solo ad avere paura e che ora, tutti insieme, invece, non ne avremo più.
Adesso, solo adesso siamo pronti e soprattutto senza paura: appena dopo quell’attimo, quel grido liberatorio in cui l’ansia, la paura ed il subbuglio lasciano il posto alla voglia dello scontro, per duro che sia, per il finale che abbia.
Poi resta poco da fare: l’arbitro lancia la palla e mentre è in volo, in pratica, è già tutto finito. Il resto sono appena 40 minuti, solo una battaglia: ne usciremo vincitori oppure vinti ma non avremo più avuto paura, ci abbracceremo sempre e comunque.

Ho notato che chi, come me un tempo, gioca sotto canestro, cerca subito un contatto abbastanza duro, uno scontro personale così da svegliarsi, da misurarsi, da ricordarsi di tenere duri gli addominali là sotto il tabellone. C’è poi chi gioca di fino, d’astuzia e va via veloce per per irretire gli avversari.
Quanto siamo belli e stupidi in quei momenti per noi così epici, nel rumore della nostra battaglia.

Io ricordo pubblico in centinaia, il boato delle trombette e le bandiere, ricordo pure battaglie con pubblico in numero deprimente e silenzio di poco interesse. Ho conosciuto la vittoria definitiva, del campionato, sconfitte rumorose, campionati altissimi, altri di sopravvivenza sportiva.
Ricordo tutto. Non ricordo però nessun ingresso in campo senza quella maledetta paura, senza il senso rassicurante di quel grido liberatorio, di quell’illusione di ognuno d’essere il solo ad aver paura, di quella sciocca ma profonda sicurezza immediatamente dopo.

Gli allenamenti sono solo un’attesa, proprio come questi giorni lontano dal campo.

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